Aborto, il diritto negato in Cile

Per ottenere un diritto, i popoli hanno sempre lottato: pensiamo – ad esempio – alle conquiste nel mondo del lavoro ottenute con proteste e scioperi o anche alle rivendicazioni delle femministe che, con cortei e manifestazioni, hanno permesso di migliorare nettamente le condizioni delle donne nel corso dell’ultimo secolo. Uno dei diritti più importanti che il movimento femminista è riuscito a ottenere è stato l’aborto.

Da sempre, le donne sono ricorse in via clandestina alla rimozione dell’embrione indesiderato; film e romanzi ci hanno vividamente raccontato di donne che, per mille motivi, non volevano o non potevano tenere il loro bambino e sono corse da sedicenti infermiere e ostetriche in grado di interrompere con i metodi più crudeli la gravidanza indesiderata.

Una realtà che, con la legalizzazione dell’aborto, qui in Italia si è andata drasticamente riducendo, ma che in altri Paesi è ancora presente: stiamo parlando, ad esempio, del Cile, uno dei pochi Paesi al mondo in cui l’aborto è ancora completamente illegale.

Ciò significa che, ad oggi, una donna cilena che abbia subito un abuso sessuale e sia rimasta incinta, che stia conducendo una gravidanza che possa compromettere gravemente la sua salute o abbia nel grembo un bimbo gravemente malato non può abortire: in Cile, l’aborto è ancora illegale e, in questi mesi, un’aspra lotta politica si sta consumando nel suo Parlamento per far approvare una parziale legalizzazione dell’aborto, per i casi appena citati.

Il Cile è uno dei Paesi più conservatori dell’America Latina, ma ciò non aveva impedito di legalizzare l’aborto nel 1931; la penalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza venne introdotta con la dittatura di Pinochet e, da allora, l’istituto non è mai più stato depenalizzato. Per comprendere quale sia la situazione dei diritti civili qui, considerate che il divorzio è stato legalizzato nel 2004.

Naturalmente, il fatto che l’aborto sia illegale non ha impedito alle cilene di ricorrere comunque all’interruzione volontaria di gravidanza: le più facoltose si recano in uno dei Paesi confinanti dove la pratica è legale, mentre le altre si affidano a quei sedicenti infermieri e ostetriche che, con metodi medioevali, “risolvono il problema”. Nel caso in cui qualcosa andasse storto, difficilmente le donne si recano in ospedale: potrebbero essere denunciate e, quindi, essere condannate fino a 5 anni di prigione.

Negare una cosa non vuol dire, in definitiva, che questa non venga fatta: nel caso del reato di aborto, si finisce solo per incentivare il ricorso a pratiche illegali, pericolose, con un dubbio livello di sicurezza igienico-sanitaria.

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