Dopo le 21, vietato l’ingresso ai bambini

Se passate da Bagnolo Mella, cercate di non attardarvi per cena: potreste vedervi le porte chiuse in faccia, dopo le 21, perché avete con voi dei bambini.

Un ristorante bresciano, salito in questi giorni agli onori della cronaca, da sette anni segue questa politica che ha acceso di nuovo i riflettori sul movimento “no kid”: era il 2008 quando Corinne Maier catalizzò l’attenzione dei media con il suo manuale “No kid: Quaranta ragioni per non avere figli” e il 2012 quando una spiaggia nel Veneto vietò l’accesso a bambini e buzzurri.

Puntuale è partito anche il botta e risposta della rete sulla questione: da una parte c’è chi difende il diritto a godersi una serata in un locale senza urla e pianti, corse e schiamazzi di bambini maleducati e dall’altra quella di chi ritiene il divieto un oltraggio al buon senso e un’eccessiva contrazione della tolleranza che, senza dubbio, invita alla riflessione sulla società di oggi e il rapporto con il suo futuro, cioè con i bambini.

La questione non trova una semplice risposta all’interno di un paese democratico dove ognuno – nei limiti della legalità – può fare quello che vuole, ma apre interrogativi e spazi di riflessione: da mamme, sappiamo benissimo che un bambino può essere irrequieto, può disturbare, può piangere e quasi sempre è molto difficile calmarlo. Un bambino, semplicemente, non è un cellulare o un pc che puoi mettere il silenzioso o spegnerlo quando vuoi: un bambino è vita, energia, spontaneità ed entusiasmo e, in quanto tale, imprevedibile.

Un bambino, tuttavia, non è un alieno, ma è una parte di noi tutti: dall’ultanovantenne all’adolescente, tutti siamo stati bimbi piagnucolosi e spensierati, irritanti e adorabili al contempo. L’infanzia non è una malattia, ma una stagione della vita, la più interessante e incantata. Negare la tolleranza a un bambino che è certamente rumoroso, ma non intenzionalmente, è un segnale grave reso ancora più cupo dinanzi a una società che sopporta, nei medesimi momenti di relax, il trillare isterico di decine di cellulari o il vociare chiassoso dei vicini di tavolo, interrotto da risate sguaiate, così come l’ingresso di animali domestici senza controlli igienici di sorta.

Il “due pesi-due misure” di tolleranza è solo l’ennesimo capitolo di una crociata alla genitorialità che rende ancor più difficile, se possibile, la crescita di un bambino al giorno d’oggi: il “la” lo danno le dimissioni in bianco della lavoratrice-madre, a cui seguono servizi per l’infanzia ridotti all’osso, strutture pubbliche come bar, ristoranti e negozi inadeguati a passeggini e cambi di pannolini, strade sempre più pericolose e giardinetti pubblici allo sfascio.

I locali “no kid” non sono, quindi, che la punta dell’iceberg di una realtà sempre più spesso sorda alle necessità di bambini, mamme e papà che interessano principalmente solo impersonali e fredde statistiche di calo di natalità e decrescita demografica.

E continuiamo a chiederci perché in Italia non nascano più bambini: sarà forse perché, come il noto proverbio africano recita, per crescere un bambino ci vuole un villaggio intero, mentre oggi come oggi il villaggio non solo non aiuta, ma discrimina in maniera sempre meno velata le famiglie?

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