‘Mia Moglie’, il gruppo con le foto intime pubblicate senza consenso, è stato chiuso

21 agosto 2025 –

La diffusione di foto intime senza consenso è un fenomeno purtroppo sempre più frequente. Non si tratta di uno scherzo, né di un semplice atto goliardico: è un reato che si inserisce a pieno titolo nella cultura dello stupro, quella mentalità tossica che considera il corpo delle donne un oggetto da esibire, possedere e commentare senza rispetto.

Negli ultimi giorni ha fatto discutere la scoperta di un gruppo Facebook dal nome apparentemente innocuo, “Mia Moglie”, ma che nascondeva una realtà inquietante: oltre 30mila iscritti intenti a condividere e commentare immagini intime di donne, spesso pubblicate dai loro stessi partner a loro insaputa.

Quando il consenso non esiste, c’è solo violenza

Immaginate di scoprire una vostra foto privata, magari scattata in intimo o in un momento di relax domestico, pubblicata online dal vostro partner senza dirvelo. Terrificante, vero? Eppure è quello che accade ogni giorno in spazi digitali che alimentano lo stupro virtuale, ovvero la condivisione non autorizzata di immagini a sfondo sessuale.

Gli scatti rubati durante il sonno, le foto in bikini, le immagini in lingerie: tutte condivise senza alcun consenso e accompagnate da commenti sessisti e violenti, che riducono le donne a meri trofei. Perché non è goliardia ma è un reato.

Il gruppo “Mia moglie” e la denuncia di Carolina Capria

A portare alla luce la vicenda è stata la scrittrice e sceneggiatrice Carolina Capria, autrice della pagina “L’ha scritto una femmina”. Dopo la sua denuncia, è emerso che il gruppo non era un piccolo spazio marginale, ma una community con oltre 32mila membri.

Le immagini venivano caricate con lo scopo di suscitare desiderio e alimentare fantasie sessuali collettive. Ma dietro questa dinamica si cela una realtà agghiacciante: donne inconsapevoli di essere fotografate e tradite proprio dalle persone di cui si fidavano di più.

I commenti e la cultura dello stupro

Se le foto già rappresentano una violazione enorme, i commenti sotto i post sono ancora più inquietanti. Espressioni volgari, inviti a rapporti sessuali, frasi come “Cosa fareste a mia moglie?” o “Pronta per la monta” rivelano quanto sia radicato il disprezzo verso la dignità femminile. In alcuni si parla addirittura di incesto.

Non è raro, inoltre, che queste condivisioni su Facebook si spostino poi su canali più difficili da monitorare, come chat private su Telegram, dove circolano foto, video e persino organizzazioni di incontri sessuali. Infatti negli screenshot recuperati, diversi utenti invitavano a spostare le conversazioni proprio su un canale Telegram.

La legge parla chiaro: è un reato

Molti di questi uomini liquidano la questione come un “gioco” o uno scherzo innocuo. Ma la legge italiana è chiara: la diffusione non consensuale di immagini sessualmente esplicite rientra nell’articolo 612-ter del Codice Penale e può comportare fino a sei anni di carcere.

Dopo la segnalazione di Capria e le denunce pubbliche, Meta ha chiuso il gruppo Facebook, precisando che violava le policy contro lo sfruttamento sessuale degli adulti. Tuttavia, non è difficile immaginare che simili pratiche si siano già spostate altrove, in spazi digitali meno visibili.

Non un caso isolato: il filo rosso della violenza di genere

Questa vicenda non è un episodio isolato, ma parte di una cultura patriarcale che alimenta la violenza di genere. Lo “stupro virtuale” non è diverso nella sua radice dal caso sconvolgente di Gisèle Pelicot, la donna francese drogata e violentata per anni, il suo corpo venduto ad altri uomini mentre era incosciente.

In entrambi i casi manca un elemento fondamentale: il consenso. E senza consenso, non c’è intimità, ma abuso.

E sottolineiamo che queste foto, anche se “rubate”, sono state scattate da un compagno o da un coniuge, non da sconosciuti, ma da coloro che dovrebbero più proteggere l’intimità di una coppia. Mariti e compagni che hanno esposto il corpo della donna a commenti laidi e disgustosi.

Perché non possiamo più minimizzare

Dire “fatevi una risata” o accusare di moralismo chi denuncia questi episodi significa essere complici. La diffusione di immagini intime senza consenso non è un passatempo, ma una violenza che segna profondamente le vittime.

È necessario ribadire con forza un concetto semplice: il corpo delle donne non è un trofeo, non è proprietà di nessuno e non può essere usato per divertimento altrui. Ogni foto pubblicata senza consenso è un atto di violenza e deve essere perseguito come tale.

Oltre mille denunce e la rimozione dalla piattaforma

Grazie alla segnalazione di Capria sono state inoltrate oltre mille denunce alla Polizia Postale e il gruppo, che operava però dal 2019, è stato finalmente chiuso.
Purtroppo, come molti di noi immagineranno, questi gruppi nascono in ogni angolo del web. Ci sono altri gruppi paralleli sia sulla piattaforma che su Telegram (app di messaggistica nota anche perché offre chat private che tutelano la privacy, purtroppo anche di persone che commettono reati come questo).

La vicenda del gruppo Facebook “Mia moglie” deve diventare un campanello d’allarme. Non possiamo più accettare che il corpo femminile venga ridotto a oggetto di scambio online.

Il consenso non è negoziabile: è la base di ogni rapporto sano, intimo o sociale che sia. Dove il consenso manca, resta solo violenza e prevaricazione.

Per questo è fondamentale denunciare, sensibilizzare e continuare a parlare di questi episodi. Perché la lotta contro la cultura dello stupro inizia da qui: dal dire con chiarezza che non è uno scherzo (“dài si fa per ridere”), ma un reato.

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