Quando ho scoperto di aspettare una bambina, non è passato molto prima che i regali si polarizzassero su un unico colore.

Ricordo che un giorno, verso la fine della gravidanza, ero entrata nella cameretta di mia figlia e mentre sistemavo l’ennesimo pigiamino notai, forse per la prima volta, il colore delle lenzuola, del piumone, delle bambole e degli accessori ricevuti in regalo.

Tutti rosa.

Era come se nel comunicare il sesso di mia figlia a parenti e amici alcune possibilità fossero state automaticamente scartate. Non più tutine colorate con mostriciattoli buffi e animaletti divertenti ma angeli sognanti e fiocchetti dorati su abitini rigorosamente rosa.

I colori da femmine e i colori da maschi

Io stessa, nel fare gli acquisti per la nascita di mia figlia, ero stata ripresa da una commessa: “Le bambine mettono il rosa, l’azzurro è solo per i ‘maschietti”.

La rigidità di questa risposta mi aveva fatto pensare a come il “Si è sempre fatto così” e altre genericità di questo tipo limitassero le nostre scelte e ci facessero attaccare a un’idea di passato fissa e immutabile che spesso è solo nella nostra testa.

Per esempio l’attribuzione dei colori così come la conosciamo oggi, ossia il rosa per le femmine e l’azzurro per i maschi, è più recente di quanto crediamo e risale agli anni ‘50.

Il rosa, infatti, proprio per la sua vicinanza al rosso, simbolo di virilità, era un colore prettamente maschile. Alle donne invece veniva consigliato di indossare il blu perché considerato più mite e grazioso.

I bambini vestivano tutti di bianco. Essendo piccoli si sporcavano facilmente e il bianco era pratico da pulire perché facile da candeggiare.

Una tradizione, quindi, ben più recente (e flessibile) di quanto crediamo.

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Le “cose” da femmine e da maschi non sono date una volta per tutte

Quando si studia la storia di questi colori, anche se diversa da come la conosciamo oggi, è inevitabile notare un aspetto comune con il passato ossia l’attenzione alla demarcazione tra i generi, della serie: “I generi sono due ed è bene che siano ben separati”.

Oggi invece sappiamo che non è così. Sesso e genere non sono sinonimi. Mentre la parola sesso fa riferimento al sesso biologico della persona e quindi alla sua composizione cromosomica, la parola genere indica l’idea che si ha di sé e l’insieme di caratteristiche, comportamenti e inclinazioni che la società associa alle persone in base al sesso biologico. Qualcosa quindi tutt’altro che naturale ma costruito culturalmente e in continuo cambiamento. Sono infatti, di volta in volta, le varie culture e le diverse epoche a definire cosa è femminile e cosa è maschile, ciò che non muta è l’ottica rigidamente binaria: maschi o femmine.

Eppure non è raro, anche per le persone che hanno identità di genere e sesso biologico allineate (chiamate cisgender), avere l’esperienza di venire meno, nel corso della vita, alle aspettative e alle pressioni sociali che vengono fatte in base al genere di appartenenza.

Questo accade perché, parafrasando l’attivista e scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, il problema del genere è che prescrive come dobbiamo essere e non come siamo davvero.

Quanto ci sentiremmo più felici e più liberi se ognuno di noi scegliesse semplicemente ciò che gli piace?

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