23 ottobre 2025 –
In Italia si fanno sempre meno figli. È un dato che ormai non sorprende più, ma che continua a raccontare una realtà in evoluzione — e, in parte, preoccupante. Negli ultimi anni il nostro Paese ha raggiunto un nuovo minimo storico: nel 2024 sono venuti al mondo meno di 370 mila bambini, con un ulteriore calo nei primi mesi del 2025. Un fenomeno che non accenna a fermarsi e che, secondo gli esperti, non dipende da una sola causa, ma da un insieme di fattori sociali, economici e culturali che si intrecciano tra loro.
Meno genitori perché… ci sono meno potenziali genitori
Uno dei paradossi più evidenti è che il calo delle nascite alimenta sé stesso. Le generazioni nate tra gli anni Settanta e Ottanta – quando la fecondità ha iniziato a scendere sotto i due figli per donna – sono oggi quelle in età fertile, ma semplicemente… sono di meno. Di conseguenza, anche se la propensione ad avere figli restasse invariata, il numero complessivo dei nuovi nati continuerebbe a diminuire.
Nel 2024 l’età media delle donne al primo figlio ha toccato quasi 32 anni, segno di un percorso di vita sempre più lungo prima di arrivare alla maternità. Gli studi, il lavoro precario, l’instabilità economica e il costo della vita spingono in avanti la decisione di diventare genitori — e spesso la rendono più difficile, soprattutto quando entrano in gioco l’orologio biologico o problemi di fertilità (che oggi interessano circa una coppia su sei).
Nord e Sud: due Italie anche nella natalità
Il calo non è uniforme: il Sud, da sempre più prolifico, registra oggi la flessione più marcata, con quasi un -7% rispetto all’anno precedente. Il Nord invece resiste un po’ meglio, anche grazie a un tessuto economico più solido e a una rete di servizi per l’infanzia più sviluppata.
Contano anche la qualità dei trasporti, la distanza dai centri urbani e la presenza di reti familiari: dove i giovani emigrano per studio o lavoro, i progetti di genitorialità tendono a slittare o a ridursi. In sintesi, la geografia della natalità italiana riflette la geografia delle opportunità: dove si vive e lavora meglio, si continua ad avere — pur tra mille incertezze — qualche figlio in più.
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Ma non si tratta solo di numeri: l’offerta educativa rappresenta un segnale culturale. Dove i nidi sono rari o considerati un lusso, la genitorialità continua a essere percepita come una scelta “impossibile” da conciliare con il lavoro. Al contrario, dove l’accesso ai servizi è normale e capillare, cresce la fiducia delle famiglie e la percezione che il sistema possa sostenerle davvero.
L’Italia, però, resta indietro: circa il 60% dei Comuni ha un tasso di copertura dei nidi inferiore al 20%. E in molti casi, soprattutto nei centri più piccoli o nel Mezzogiorno, l’offerta pubblica è quasi inesistente.
Più servizi, più uguaglianza, più nascite
Il recente Istat Working Paper intitolato “L’impatto dell’espansione dei servizi educativi per la prima infanzia sull’andamento della natalità in Italia” ha messo nero su bianco proprio ciò che molte famiglie sanno per esperienza diretta: l’ampliamento dei servizi per la prima infanzia non è solo una misura educativa, ma un investimento strategico per il futuro demografico del Paese.
Secondo i ricercatori, nei Comuni che tra il 2015 e il 2018 hanno portato la copertura dei nidi dal 20% al 30% dei bambini sotto i tre anni si è registrato un aumento medio dell’8,6% delle nascite nei quattro anni successivi. Un risultato “statisticamente significativo”, che dimostra come la disponibilità di strutture adeguate influisca concretamente sulle scelte riproduttive delle famiglie.
Ma il dato più interessante riguarda l’effetto sociale di questi servizi. L’ampliamento dell’offerta di nidi non solo favorisce la natalità, ma riduce le disuguaglianze di genere e territoriali, perché permette a più donne di restare nel mondo del lavoro dopo la maternità. L’accesso all’educazione precoce, spiegano gli autori, è anche una chiave di uguaglianza di opportunità, soprattutto per le madri con livelli d’istruzione più bassi o che vivono in contesti svantaggiati.
Laddove invece i servizi sono scarsi o riservati solo a categorie fragili, si genera un circolo vizioso: le famiglie non sviluppano fiducia nel sistema, la domanda resta bassa e la nascita di nuovi figli appare un rischio difficile da sostenere. Al contrario, quando i nidi diventano parte integrante della vita comunitaria, si crea una “cultura della fiducia”: le famiglie iniziano a percepire la genitorialità non come una rinuncia, ma come un percorso sostenibile.
Ecco perché investire nei servizi per la prima infanzia significa creare le condizioni concrete perché i bambini possano nascere, crescere e svilupparsi in contesti sereni. È una politica che guarda lontano: più nidi oggi, più uguaglianza domani — e, nel tempo, più nascite.
Un futuro da riscrivere insieme
Il calo delle nascite non è soltanto una questione demografica, ma una sfida sociale che riguarda tutti. Non si può chiedere ai giovani di “fare più figli” senza offrire loro prospettive concrete: case accessibili, stipendi dignitosi, politiche familiari solide e servizi diffusi.
Se è vero che “servono più bambini”, è altrettanto vero che servono più condizioni per poterli accogliere. Perché la natalità non si stimola con gli slogan, ma con la fiducia — quella che nasce solo quando la società intera decide di prendersi cura dei suoi futuri cittadini, a partire dai più piccoli.



