Le ragioni per cui non facciamo più figli

La società per certi versi è un po’ come quella gente che ti guarda entusiasta quando sfoggi un bel pancione ma che si dimentica di te quando hai il pargolo tra le braccia. E questo fa paura.

Maternità e lavoro

Ci sono donne che al lavoro arrivano a nascondere il pancione “finché si può”. Lo nascondono come fosse un problema. Ma come dar loro torto? Sono ancora troppi gli ambienti lavorativi in cui una donna incinta anziché essere una reale lieta novella è solo una noia burocratica. Un’altra maternità da sbrigare. O ancora, donne che in fase di assunzione si sentono rivolgere domande sulla propria inclinazione alla maternità.

Lavori considerati a rischio che chiedono, gentilmente, di presenziare più o meno fino all’arrivo delle contrazioni. O il sussidio di maternità che non è nemmeno una certezza, ma che dipende dal tipo di contratto che si ha, dall’essere o meno lavoratrici con partita IVA.

Assordanti campanelli d’allarme che fanno intendere chiaramente quanta strada abbia ancora da percorrere il mondo del lavoro nei confronti della maternità.

Il rientro al lavoro

Ma mettiamo che una donna sia abbastanza coraggiosa da fare un figlio, poi che succede? Incontrerà altre difficoltà, quelle legate al rientro al lavoro per esempio: difficoltà di conciliazione tra lavoro e cura, nidi che scarseggiano e costano un terzo del suo stipendio e magari un po’ di sano mobbing, prima di rientrare e una volta rientrata, giusto per performare meglio.

Accade così che una donna su cinque arriva a lasciare il proprio lavoro dopo la nascita del primo figlio. Rischiando di andare incontro a problemi che hanno nome e cognome: dipendenza economica ed esclusione sociale.

La questione nido

È abbastanza assurdo che per assicurarsi un posto in un nido pubblico sia necessario iscrivere il proprio figlio praticamente quando si è ancora delle gestanti. Come si fa a sapere, già in quel momento, come sarà la vita dopo un figlio? Come si fa a sapere, a priori, quando si sarà pronti per rientrare al lavoro? Stiamo parlando di avere figli, non di robotica.

La maternità non è uguale per tutte. Ci sono donne che stanno bene a casa con i figli per un tempo prolungato e altre che sentono il bisogno di metter la testa sul lavoro al più presto. Quali sono antiche e quali realmente rivoluzionarie? Quale dei due modelli di donna è fallato? Credo, con estrema sincerità, che il mondo per progredire davvero abbia bisogno di entrambe.

Le madri che lavorano fino a sera non valgono più di quelle che vanno a prendere i figli a scuola e viceversa. Entrambe hanno cuore e testa da vendere ed entrambe hanno il diritto di diventare madri seguendo la propria indole, all’interno di una società in grado di sostenerle e di rispettarle per davvero.

Servirebbero soluzioni flessibili

Ne emerge dunque che un modello unico di maternità secondo cui, quando scopri di esser incinta, scatta un timer, non sia forse la miglior soluzione. Servirebbe flessibilità e perché questa flessibilità sia possibile servirebbero molti strumenti a sostegno della maternità: investimenti, risorse, cambiamenti e nuove idee. Forse i continui aggiustamenti del corrente modello non fanno più per noi.

È la mentalità alla base di tutta la catena che andrebbe messa in discussione. Altrimenti fare un figlio diventa difficile, farne due folle e farne tre praticamente impossibile.

Educazione alla gravidanza e al parto, per tutti

Sento ancora troppe persone affermare con superficialità cose del tipo: “le donne incinte sono paranoiche”, “le mamme sono esaurite”, “ha voluto un figlio e ora si lamenta”.

Ma come può un dirigente uomo o una donna che magari di figli non ne vuole, comprendere le esigenze di una dipendente incinta e di una madre? Senza che queste debbano dimostrare di esser in grado di affrontare le dodici fatiche di Ercole?

Servirebbe un’educazione comune a ciò che sono gravidanza, parto e post parto. Esistiamo grazie a questi “atti” ma, a parte le dirette interessate e chi le fa partorire, nessuno ne sa niente. I bambini nascono dopo nove mesi e poi in qualche modo arrivano a scuola, punto.

Se tutti conoscessimo, almeno a grandi linee, le difficoltà di queste fasi, sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico, saremmo in grado di comprendere maggiormente la questione. Servirebbe dunque una maggior coscienza comune, e questa la si può ottenere solo attraverso la sensibilizzazione e l’istruzione sui temi interessati.

Un percorso e un parto consapevoli

Non è giusto beccarsi la doccia fredda solo quando cresce la pancia, abbiamo il diritto di arrivare preparate a tale momento e non basta il corso pre parto facoltativo dell’ultimo minuto, a cui magari lo stesso marito nemmeno partecipa.

Una maggior consapevolezza in gravidanza e durante tutto il cammino ridurrebbe la mole delle difficoltà che si incontrano e forse anche qualche caso di violenza ostetrica, perché sapendo meglio cosa stiamo facendo saremmo in grado di farci rispettare sotto tutti gli aspetti. Tale consapevolezza ci aiuterebbe anche a chiedere aiuto in caso di bisogno, senza sentirci strane o, peggio, sole.

La maternità è lavoro, non un “buco nel curriculum”

Se ciò si riflettesse nel pensar comune, la maternità non sarebbe più vista come un buco nero nel curriculum, ma come un valore aggiunto, qualcosa che possiamo comprendere e apprezzare tutti, delle Soft Skills da aggiungere al CV.

Tutto questo andrebbe preso in considerazione non solo per la salvezza dei dati Istat (la natalità è in calo per il quattordicesimo anno di fila), ma per il bene della comunità e in generale per il futuro.

Ogni donna dovrebbe annunciare e mostrare con serenità il proprio pancione al lavoro, ogni donna dovrebbe poter tornare a lavorare a testa alta, senza rischiare un esaurimento nervoso e senza lavorare come se non avesse figli. A questo punto, forse, si avrebbe meno paura di metterli al mondo.

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