L’ingiusta narrazione della maternità, la fragilità, il rooming-in

Se fossimo chiamati a fare una statistica sui fatti di cronaca degli ultimi mesi, sui quali si è creata più polarizzazione ed empatia, non ci sarebbero molti dubbi. La tragedia avvenuta all’Ospedale Pertini, nella quale si è spenta una tenerissima vita appena messa al mondo, ha svuotato un po’ tutti.

Forse per questo è uno di quei tristi episodi nei quali il livello di informazione e di approfondimento è nettamente inferiore a tutto quello che ne è seguito, al momento.

E questo sta avvenendo per due motivi: una giovane vita che si spegne è talmente innaturale, che per fortuna risveglia l’umanità ed il senso di ingiustizia che è in noi; e perché molte mamme che hanno vissuto un’esperienza simile– anche se con un epilogo differente- hanno sentito di poter approfittare di questa fessura, per raccontare la propria storia.

L’occhio di bue di questa tragedia illumina alcuni punti fermi:

  • la fragilità nella quale si trova la donna che ha appena partorito
  • la famosa narrazione della maternità
  • la pratica del rooming-in
  • la violenza ostetrica.

Chiunque abbia messo al mondo un figlio, può facilmente immedesimarsi in quel salto nel buio che si fa quando entri in travaglio, nel dolore fisico, nella sfibrante lotta per la messa al mondo il prima possibile, nella stanchezza psicologica, ed anche in parti non sempre facili come si sarebbe sperato ed immaginato. Infine, anche in una degenza ostile, poco accogliente e poco rassicurante (ovviamente non sempre).

Per questo è stato assai semplice raccogliere, in un brevissimo lasso di tempo, un numero infinito di testimonianze di donne disposte a dire la propria, perché urgeva in loro la voglia di raccontare le cose come stavano.

Un’impellenza che ha i margini dell’incontinenza ma che quasi non si spiega perché non sia venuta fuori prima. Forse ci voleva una tragedia per accendere la luce su quella famosa narrazione della maternità che comincia dalla gravidanza, passa attraverso il parto, e continua nei mesi e gli anni a seguire.

Ma andiamo con ordine: cosa sappiamo

Al momento in cui si scrive, ancora molto si deve scoprire sulla dinamica della tragedia nella quale una donna, evidentemente troppo stanca per poter accudire il proprio neonato, vedendosi rifiutata la richiesta aiuto, è costretta ad allattare suo figlio, mettendoselo nel letto. Una volta addormentata, il bambino soffocherà sotto il suo peso.

L’indagine è all’inizio e sarà la magistratura ad offrirci una sentenza che individuerà eventuali responsabilità ma certamente alcuna consolazione ai genitori del piccolo.

In molti ma non in tutti gli ospedali la pratica del rooming-in (per favorire un immediato attaccamento ed anche per avviare un più semplice allattamento) è fortemente voluta dalle mamme stesse che a volte, anche in base a questa opportunità offerta, decidono dove partorire.

Il rooming-in, vien da sé, deve assolutamente essere una scelta, poiché richiede che mamma sia, anche se stanca, vigile ed abbia le giuste condizioni fisiche. Per questo può accadere – come successo anche a me- che ci si ripensi subito dopo il parto.

Stesso discorso per l’allattamento che, anche se fortemente voluto all’inizio, potrebbe non partire facilmente e la mamma deve avere tutto il diritto di fare una scelta diversa, senza doversi subire sfibranti monologhi sulla migliore qualità del latte materno da chicchessia, se non ce la fa.

Il ruolo del personale ostetrico

Durante e dopo il parto il ruolo delle ostetriche (e degli ostetrici) è fondamentale, a volte, più di quello dei medici. Ci sono travagli e parti nei quali tutto avviene grazie al solo loro aiuto e sostegno. Spesso, dentro di noi, anche a distanza di anni, ci sarà sempre un pezzo di cuore occupato dal loro ricordo. Aiuto prezioso, cura, accudimento.

Altre volte invece, senza arrivare all’epilogo del Pertini, sono proprio loro a rendere le cose più difficili. C’è chi racconta di essere stata offesa, durante il parto, chi di aver chiesto aiuto durante il travaglio, chi per l’allattamento, chi per poter riposare un attimo senza il proprio bambino, senza aver intercettato una carezza, ma neanche una semplice risposta.

Della violenza ostetrica si parla molto negli ultimi dieci anni, ed i suoi confini sono estremamente elastici.
Ci si domanda come mai, nel luogo più sicuro per una partoriente, un luogo deputato alla sua cura, si possano subire violenze verbali, come assenza di aiuto. La verità è complessa ma certamente una parte sta anche nella poca credibilità verso le richieste di aiuto delle mamme e di chi le appoggia (come papà, parenti e così via).

Una mamma che chiede aiuto, che si dice stanca, è solo una persona che non sopporta abbastanza il dolore, che non si sforza, che ancora non è pronta a diventare genitore, ma ormai non può più tornare indietro, per cui è meglio che si abitui. Non si mette in dubbio la carenza di personale in alcune strutture, come manco che questa non sia la realtà ovunque, ma è altrettanto innegabile, che veniamo costantemente ignorate o non credute, in quei frangenti. Del resto, se così non fosse, la tragedia non sarebbe avvenuta, perché non è immaginabile che la morte del piccolo fosse stata presa in considerazione dal personale e che questo non si fosse adoperato per evitarlo.

Noi mamme e papà viviamo in un contesto che ci mette sempre in cattiva luce, non siamo soggetti ai quali si dà fiducia. È più facile che si parli male dei ” genitori di oggi” che bene. E questo comincia dall’ospedale, non in tutti ovviamente, nei quali pare che esageriamo con le richieste di aiuto, per non finire mai. Non in tutti, urge ripeterlo.

La narrazione (ingiusta) della maternità

All’inizio abbiamo parlato della narrazione della maternità che ha molto a che fare anche con questa storia o che, se vogliamo, quanto meno ha dato il là per sviscerarla. Noi mamme siamo invincibili, eroine, multitasking, mai stanche, paladine dell’istinto materno e dell’allattamento al seno. E guai a venire fuori da questo bel perimento, altrimenti il minimo è un sopracciglio alzato.

La vera mamma è quella che ce la fa senza epidurale, quella che allatta con dolore o senza, quella che si alza solo lei la notte quando il bambino piange, quella che cambia solo lei i pannolini, in seguito, quella che in modo più o meno esclusivo si occupa dell’educazione del bambino, lo accompagna a scuola alle varie attività, è accanto a lui nei compiti, e lavora pure.

Se qualcosa di questo non torna, se non si allatta, se ci si divide i compiti con il partner, solo per fare due esempi, ci sarà qualcuno in grado di farti sentire meno. Meno stanca, meno impegnata, meno responsabile, meno amorevole. Meno mamma.

Forse, è anche per questo che, a volte, andiamo oltre le nostre energie fisiche e mentali, esponendoci al pericolo.

Ad essere sincera, però, credo che nell’ultimo decennio il vaso di Pandora sia stato scardinato, e che la maternità venga raccontata in molte forme. Proprio per evitare che si distinguano due categorie di madri: le martiri, che meritano il podio, e le altre.

Ci si racconta tutto. Delle fatiche della gravidanza e del parto, dei primi mesi ed anni dei bambini, degli allattamenti non partiti o anche serenamente non voluti, ma poi ognuna di noi sceglie. Sceglie chi e a cosa dare credito. Ognuna sceglie da che parte della barricata stare. E forse questo complica le cose.

Siamo noi che preferiamo ascoltare “Mamma è solo felicità, da quando ho 8 figli” rispetto a “Aspetta che, anche se il finale è bello, la strada è a dossi”.

Nella storia del Pertini il finale non è bello. L’unico aspetto positivo è che molte persone, molte donne, si sono finalmente sentite libere di raccontare ciò che fino a ieri tacevano, per paura del giudizio. Come anche la stanchezza, la debolezza, la fragilità. Perché siamo esseri umani, prima che ogni altra cosa.

E questa solidarietà meravigliosa che ha sconvolto i media ed i social ed i dibattiti dal vivo (che nulla ora vuole avere a che fare con le responsabilità che non sta a noi verificare) spero non finisca mai. Questo è il mio augurio: che si prenda spunto da questa vicenda per evitare di giudicarci, di dividersi fra chi se l’è vista peggio, e chi è più stanco. Perché queste sono le radici di quella narrazione che vorremmo fosse spazzata via per sempre e che ci rende ancora più stanche e fragili di come, umanamente, abbiamo il diritto di essere.

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