Bambini che non mangiano: che fare? I consigli del pediatra

Dopo il naso che cola e i malanni di stagione, il bambino che non mangia è una delle problematiche principali per cui le mamme si rivolgono al pediatra. Ma quando c’è realmente da preoccuparsi? Lo abbiamo chiesto alla dottoressa Patrizia Franco, nutrizionista, pediatra e omeopata di MioDottore, che ci ha fornito utilissime indicazioni e spunti di riflessione per far vivere più serenamente a noi e ai nostri figli l’ora della pappa.

Spesso i genitori si rivolgono ai pediatri allarmati dalle continue lotte a tavola con i loro figli. Come si affronta il problema?

Una delle cause più frequenti di consultazione pediatrica è l’inappetenza del bambino. Quest’ultima è realmente un sintomo di frequente riscontro, quasi sempre sopravvalutato dal genitore.

Ad ogni modo, è necessario valutare sia la durata temporale che l’intensità del disturbo, senza dimenticare di raccogliere un’attenta anamnesi. Infatti, un’accurata rilevazione dei dati auxologici (peso, altezza, BMI, stato nutrizionale) permetterà al pediatra di escludere cause patologiche importanti.

Un’inappetenza transitoria può essere considerata “parafisiologica”, comune in periodi critici – ad esempio durante lo svezzamento, l’eruzione dei dentini oppure in concomitanza di modeste malattie intercorrenti come flogosi virali delle alte vie respiratorie o intestinali.

Anche alcune situazioni psicologiche del bambino, quali il bisogno di attenzione o di affermazione della propria identità o ancora cause ambientali negative (confusione, frettolosità, mancanza di regolarità degli orari nonchè presentazione e aspetto non gradevole del piatto), possono determinare un rifiuto del cibo. Non dimentichiamoci che il cibo è esperienza sensoriale anche per un bambino.

Nel periodo dell’allattamento, la doppia pesata è l’incubo di molte mamme. È davvero necessaria?

Il metodo della doppia pesata durante l’allattamento è alquanto inutile, se non dannoso, per lo stress che comporta alla madre. La bilancia è solo uno strumento che, se usato in modo appropriato, può darci delle indicazioni parziali sullo stato di benessere del bambino. Infatti, è più importante osservare il bambino piuttosto che l’ago della bilancia!

Al contrario, è utile coinvolgere la madre nel porre attenzione ai seguenti elementi: quante poppate fa il lattante nell’arco delle 24 ore, se si stacca dal seno soddisfatto o se piange ed è inquieto, se deglutisce mentre succhia, se rigurgita, etc.

Il metodo della doppia pesata può risultare di una certa utilità, ma solo per un brevissimo periodo, solo nel caso in cui si debba ricorrere all’allattamento misto e per stabilire il grado di ipogalattia materna reale.

La madre va tranquillizzata sempre, ricordandole che è valido il principio della autoregolazione del bambino, che il latte materno è un alimento “plastico” – non sempre uguale per quantità o composizione – e che il piccolo lattante è in grado di usufruirne al meglio. In altri termini: doppia pesata bandita se si vuole essere felici!

Quanto deve mangiare un bambino per stare bene? Esistono indicazioni di massima valide per tutti?

Ogni bambino, si sa, è un unicum, una storia a sè e non esistono “ricette universali”. Possono solo esistere consigli o suggerimenti applicabili a tutti, ma vale la pena ricordare che la nutrizione, essendo importante e centrale strumento preventivo e/o terapeutico, va individualizzata.

È importante evitare il malcostume dell’imposizione di orari rigidi delle poppate, della doppia pesata e della relativa ansia che scatena nella madre qualora il latte assunto sia inferiore alle sue aspettative.

Si può affermare che nei primi tre mesi di vita un neonato dovrebbe crescere circa 150-200 gr. a settimana e 100-150 gr. dai 3 ai 6 mesi. Lo strumento di garanzia che il “cucciolo” sta bene è la visita pediatrica periodica in cui vi è una valutazione globale dello stato di salute del bambino.

I parametri di valutazione saranno sicuramente più ampi, piuttosto che sopravvalutare il semplice spostamento dell’ago della bilancia. È importante ricordare che la nutrizione dei primi mesi di vita rappresenta il primo step dell’imprinting nutrizionale che deve avvenire in modo ottimale perchè indirizza e plasma ogni individuo verso uno stile alimentare corretto nelle età successive e persino nell’età adulta.

Spesso i bambini affrontano l’inizio dello svezzamento con entusiasmo, ma intorno al primo/secondo anno di vita diventano molto più selettivi e rifiutano anche cibi che prima mangiavano volentieri: come mai?

Sì, questo è un comportamento relativamente frequente. Il rifiuto del cibo precedentemente ben accetto può far parte di una fase di crescita del bambino altrimenti detta “la fase del no” che può riguardare molti aspetti di vita del bimbo.

Il rifiuto del cibo, in linea di massima, non è dettato da un carattere difficile od ostile del bambino; viceversa, il piccolo sta creando il suo carattere, utilizzando spesso atteggiamenti oppositivi. Sperimenta così il suo potere sugli altri anche attraverso il cibo. A questa età nascono gusti e preferenze personali che vanno riconosciute e rispettate.

Intorno ai due anni in genere si conclude la fase del rifiuto e anche il rapporto col cibo tende a stabilizzarsi. Una volta compreso che il bambino necessita di una fondamentale definizione del suo carattere, cosa è bene fare? Di seguito qualche suggerimento:

  • considerare il bimbo come un esploratore, lasciandolo muovere secondo la tecnica “prova ed errore” per consentirgli di esplorare i propri limiti;
  • usare fantasia nella preparazione del cibo;
  • non tentare mai di convincere il piccolo con ricatti o promesse;
  • lasciare che il piccolo si sporchi, porti da solo il cibo alla bocca;
  • abbattere le proprie aspettative rispetto ad una corretta esecuzione del pasto;
  • se il bambino ha un rifiuto totale verso uno o più alimenti, senza insistere, va individuato, su consiglio del pediatra, un alimento con qualità nutrizionali simili. Talvolta può essere necessario somministrare un integratore specifico sempre su consiglo medico;
  • evitare, se possibile, continue consultazioni mediche ed esami di laboratorio inutili, per una patologia che non c’è.

Mi piace concludere questa risposta con una frase di Ellen Godman che dice “l’impresa più difficile dell’essere genitori è lasciare che le nostre speranze per i figli abbiano la meglio sulle nostre paure”.

Molte mamme si lamentano che i loro figli rifiutino categoricamente determinate categorie di alimenti (ad esempio le verdure) o che finiscano per mangiare solo 5 o 6 piatti: in che misura è giusto assecondarli?

Questo fenomeno si definisce selettività alimentare o anche neofobia, cioè rifiuto verso un cibo nuovo. La domanda è se considerarla una fase transitoria dello sviluppo oppure un vero disturbo del comportamento.

Spesso i bambini limitano, infatti, la loro alimentazione ad una ristretta e ripetitiva gamma di cibi. Se tale comportamento ha i caratteri della transitorietà ed è di lieve entità, non deve destare preoccupazione; se, viceversa, tale anomalia persiste a lungo, assume il carattere di una disfunzionalità, tale da poterlo considerare un disturbo del comportamento alimentare.

Le cause sono spesso multifattoriali e sono mediche, psicologiche e ambientali. La continua pressione a mangiare, la maggiore sensibilità agli stimoli sensoriali da parte del bambino, un eccessivo rigore e controllo del genitore, sono tutte concause.

Ad ogni modo, va comunque segnalato al medico che dovrà escludere qualunque causa organica, tipo intolleranze e/o allergie. Dovrà anche escludere deficit dell’accrescimento, fare una valutazione sul funzionamento sociale e relazionale all’interno del nucleo familiare ed, infine, escludere che si tratti di un disturbo specifico del neurosviluppo.

I consigli che si possono dare sono già stati forniti nella domanda precedente. È possibile aggiungere di evitare di sostituire alimenti importanti come frutta, verdura, carne, pesce – solitamente poco amati dai bambini – con prodotti commerciali ultraprocessati, come quelli dei fast food, pur di vedere soddisfatta la propria ansia de “il bambino non mi mangia”.

Quali sono i comportamenti da evitare per permettere al bambino di crescere sviluppando un giusto rapporto con il cibo?

I comportamenti da tenere sono:

  • focalizzarsi più sull’educazione alimentare che sull’atto del mangiarein sè;
  • parlare del cibo in termini di aromi, colori, gusti, storia;
  • cucinare insieme al bambino perchè questa attività soddisfa le esigenze affettive, la sana curiosità e l’imitazione dei modelli genitoriali;
  • ricordare che l’emozionalità che si accompagna al momento del pasto è un fattore imprescindibile per valutare il comportamento del bambino;
  • far vivere il momento del pasto come momento conviviale e non ridurre l’atto nutritivo a uno strumento di potere della madre sul bambino;
  • evitare interventi ricattatori, emotivi, intimidatori.

Quali consigli si sente di dare per rassicurare le mamme “ansiose”?

La tesi del pediatra Gonzales che l’inappetenza è quasi sempre  una questione di equlibrio tra ciò che il bambino realmente mangia e quanto la madre si aspetti che mangi, è da me pienamente condivisa.

Il problema va quasi sempre sdrammatizzato e…. alla fine vissero tutti felici e contenti! Concludo con la frase del grande Gibran “La nostra ansia non viene dal pensare al futuro, ma dal volerlo controllare”.

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