La sedia della riflessione: soluzione educativa o fonte di umiliazione?

“Resta lì e non ti muovere, ripensa a quello che hai fatto!”: nel mondo dell’educazione infantile, il metodo della sedia della riflessione è diventato un argomento molto discusso tra genitori e educatori.

Spesso adottato nelle scuole e negli asili, la sedia della riflessione è pensata per aiutare i bambini a prendere consapevolezza dei propri comportamenti attraverso un momento di pausa e riflessione. Ma quali sono i reali impatti psicologici di questo metodo sui bambini? E come può essere utilizzato in modo efficace ed empatico dagli educatori?

In questo articolo, la dottoressa Silvia Di Chio, psicologa di Mio Dottore, ci offre un’analisi approfondita e una prospettiva psicologica su questo controverso “strumento educativo”.

Che cos’è la sedia della riflessione

La “sedia della riflessione” o “per pensare”, definita anche come momento del “time-out“, è una forma di strumento disciplinare, derivante da approcci educativi di tipo cognitivo-comportamentale, che è stata molto utilizzata negli ultimi anni in molti ambiti sia scolastici che familiari.

Mi viene in mente la mia esperienza in una scuola “speciale” del Regno Unito, che accoglieva bambini con diverse disabilità fisiche e mentali, dove venivano applicate tecniche comportamentali per l’apprendimento, tra cui la sedia del time out. Questo momento veniva accompagnato dallo scorrere del tempo, attraverso una clessidra, in cui il bambino doveva rimanere in disparte dalla classe, in uno spazio separato finché la sabbia nella clessidra non fosse scesa del tutto.

Al bambino veniva chiesto di allontanarsi dal suo ambiente quando quest’ultimo manifestava un comportamento inadeguato in classe, come lanciare oggetti verso gli altri compagni, aggredire fisicamente oppure urlare o dare calci.

L’obiettivo era quello di porre il bambino in uno spazio separato dagli altri, senza pari o adulti vicino, né attività o giochi a disposizione, con l’indicazione di “pensare a ciò che aveva fatto” e “calmarsi”.

I vantaggi della sedia della riflessione

La domanda che mi viene in mente innanzitutto è: vantaggio per chi?

Se lo si vuole considerare un vantaggio per l’adulto, con questo metodo l’educatore o il genitore prova a gestire il momento critico, placando la situazione, esercitando però semplicemente un “controllo“, una repressione, anziché accostarsi realmente al mondo emotivo del bambino attraverso la comprensione di quello che ha scatenato quelle reazioni.

Come se fosse una necessità dell’adulto negare le emozioni, “fuggire” dalla sofferenza che in quel momento una situazione critica poteva provocare non solo nel bambino ma anche nel caregiver.

Quindi questo non può essere considerato un vantaggio per il bambino. Il momento della sedia o time out potrebbe essere utile, invece, proprio all’adulto per decomprimere le sue emozioni, qualora la rabbia del bambino scateni anche in lui sentimenti di rabbia.

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Ma i caregivers dovrebbero riuscire a trovare da sé modi per elaborare le proprie emozioni “negative”, chiedendo l’aiuto o l’intervento di un/una collega per ritrovare la calma, altrimenti difficilmente riusciranno a calmare il bambino.

Chiunque si occupi a qualsiasi titolo di bambini piccoli, dovrebbe essere capace di svolgere per loro le funzioni emotive indispensabili per la loro crescita. Contenere le emozioni del bambino e modularle in modo tale che egli possa integrarle nel processo di strutturazione della sua personalità, senza dover ricorrere massicciamente a meccanismi di difesa o di fuga dalla sofferenza è uno dei compiti più importanti dell’educatore (Noziglia, M.)

Gli svantaggi per il bambino

Gli svantaggi di questo metodo possano essere molteplici.

Innanzitutto, il bambino può sentirsi allontanato, umiliato e quindi vivere quel momento come una punizione, anziché come un esempio di momento costruttivo per affrontare le difficoltà. Potrà sentirsi “sbagliato”, pensare di non essere accettato se si comporta male e questo potrebbe incidere sul suo senso di sicurezza e autostima.

I bambini, sin da piccoli, hanno bisogno dell’aiuto del caregiver per regolare le proprie emozioni, in particolar modo quelle intense, e non riescono a farlo da soli. Rimanere soli non permette loro di sperimentare una regolazione dall’esterno che gli fornisca contenimento e rassicurazione sia per calmarsi, ma anche, in futuro, per imparare ad autoregolarsi.

Stern (1984) ha sottolineato come il caregiver, attraverso la sintonizzazione con le espressioni comportamentali delle emozioni del bambino, sia in grado di rispondere con cure ed espressioni emotive appropriate, che contribuiscono ad organizzare e regolare la vita emotiva del bambino.

Secondo Sroufe (1996) il bambino passa da un sistema di regolazione diadico a uno individuale. L’autore definisce l’attaccamento stesso come modalità di regolazione diadica delle emozioni ed evidenzia come esso costituisca la base da cui si evolve l’autoregolazione.

Anche Schore (2000) considera la teoria dell’attaccamento essenzialmente come una “teoria della regolazione intenzionale tra due organismi sincronizzati a livello biologico”.

Preservare il senso della sicurezza emotiva mediante una buona regolazione rappresenta dunque un importante obiettivo che organizza l’esperienza emotiva individuale, le relative tendenze all’azione e la valutazione di sé e delle relazioni interpersonali (Barone, 2007).

Anche secondo l’AAIMHI (Australian Association for Infant Mental Health Inc.), che tiene conto del modello della teoria dell’attaccamento sostenuta da molteplici ricerche, il time out con bambini 0-3 anni è inappropriato e ha pubblicato una dichiarazione sul proprio sito in tal senso. I dubbi dell’AAIMHI riguardo all’uso esclusivo del time out con bambini al di sotto dei 3 anni sono:

  • non insegna ai bambini modi costruttivi di affrontare i problemi; al contrario insegna la separazione come modo per affrontarli;
  • non prende in considerazione le capacità di sviluppo dei bambini piccoli. Da un punto di vista dell’attaccamento e delle teorie dello sviluppo i bambini a quest’età sperimentano e non hanno ancora le capacità di controllare gli impulsi a causa dell’immaturità del loro cervello e del sistema nervoso;
  • disconnette il bambino dalla relazione con l’adulto, disconnessione che egli vive come forma di punizione per il suo comportamento;
  • non riconosce la necessità della regolazione esterna da parte di adulti sensibili e responsivi per un corretto sviluppo emotivo. Il bambino piccolo non può imparare da solo l’autoregolazione: l’intervento empatico dell’adulto è fondamentale;
  • non favorisce nell’adulto la comprensione delle motivazioni del bambino, del suo bisogno celato dietro il comportamento e quindi un intervento educativo contingente.
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Per quanto riguarda i bambini più grandi, molti di loro non hanno ricevuto alcun modello di auto regolazione da parte dei caregivers per poi essere in grado di autoregolarsi. Perciò anche loro hanno bisogno di adulti che li aiutino a regolare i propri sentimenti.

Secondo l’AAIMHI:

Le emozioni non regolate sono la causa dei comportamenti incontrollati; rispondere a questo tipo di comportamento vuol dire rispondere ai sottostanti bisogni emozionali del bambino. Il modo più efficace a lungo termine di gestire tali comportamenti da parte dei caregivers è quello di comprendere come il bambino si sente e ciò che gli passa per la mente. A quel punto il genitore o colui che si prende cura del bambino può anticipare i problemi prima che sorgano, pianificando come prevenirli. Quando le emozioni intense si presentano, il caregiver può così mostrare al piccolo che esse possono essere capite e gestite.

Anche la Goldschmied (1994) afferma: “chiunque abbia a che fare con il bambino deve capire che la punizione e l’isolamento non gli serviranno per raggiungere l’autocontrollo di cui ha bisogno”.

Sedia della riflessione a scuola

Questo metodo è probabilmente molto diffuso poiché considerato come una strategia più immediata per affrontare situazioni problematiche, che non richiede ai caregivers il lavoro più dispendioso di porsi in un’ottica riflessiva e comprensiva dei bambini e soprattutto di loro stessi nel lavoro educativo.

Nell’ambiente scolastico non sempre gli insegnanti, per diversi motivi, trovano lo spazio per “mettersi in discussione” nel proprio lavoro di educatori e questo lascia spazio a metodi poco pensati e perciò inefficaci.

Nel caso in cui questo metodo fosse utilizzato all’interno della classe e qualora il genitore fosse contrario al suo utilizzo potrebbe innanzitutto parlarne con gli insegnanti esponendo i propri dubbi. Qualora fosse necessario ci si potrebbe rivolgere al Dirigente Scolastico oppure allo Sportello di ascolto psicologico della scuola.

Se il genitore poi si rendesse conto che questo metodo utilizzato dalle insegnanti sta generando nel bambino delle conseguenze a livello emotivo può rivolgersi ad uno Psicoterapeuta dell’Età Evolutiva per affrontare insieme la situazione.

Come trasformare la sedia della riflessione in un metodo educativo

Anziché considerare la sedia della riflessione come un time out, lasciando il bambino da solo a gestire le sue emozioni fuori controllo, si potrebbe pensare ad un “time in“: ci si siede vicino al bambino cercando di promuovere una co-regolazione (dando voce alle emozioni), rinforzando allo stesso tempo i limiti e aiutarlo a riparare la situazione.

Ci sono anche delle ricerche che mostrano (Stelter & Halberstadt, 2011), (Hurrell et al., 2015) come i genitori che danno valore e accettano le emozioni dei propri figli, incluse le emozioni negative, hanno figli che si sentono più sicuri, mostrano una più grande capacità di stare con i pari e hanno un’ansia minore.

Molto utile può essere anche un feeling break in cui sia il bambino che l’adulto possono prendersi una pausa per riflettere, per sentire, uno spazio per regolare le proprie emozioni.

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La differenza con il time out è che non si ignora il bambino o gli si dice di “calmarsi”; gli si chiede semplicemente di prendersi una pausa per sentire le proprie emozioni, un momento per riflettere, solo dopo che le emozioni sono state espresse.

Se il bambino è talmente turbato da non essere avvicinabile e rifiuta qualsiasi forma di contatto l’adulto gli permette di allontanarsi per esprimere i suoi sentimenti, ma rimane nei pressi del bambino, gli fa sentire la sua presenza, continua a parlargli dicendogli che capisce quanto possa essere difficile per lui, come si può sentire e rassicurarlo che quando sarà passato potranno riparlarne insieme.

Dandogli il tempo e lo spazio di vivere quel momento e di recuperare con i suoi tempi e i suoi modi. Se il bambino è piccolo, l’insegnante o il genitore può prenderlo in braccio, qualora lui accetti, e verbalizzare l’accaduto aiutandolo ad elaborare e integrare l’esperienza appena accaduta.

“Quando si parla dei propri sentimenti, questi diventano meno travolgenti, meno sconvolgenti e perciò meno spaventosi” Mr. Rogers.

Dott.ssa Silvia Di Chio
Psicologa
Psicoterapeuta dell’Età Evolutiva
(bambini, adolescenti e famiglie; modello Tavistock)
Via Domodossola 29, int.19 Roma
email: silvia.dichio@gmail.com

Bibliografia

  • AAIMHI (Australian Association for Infant Mental Health Inc.): http://www.drmomma.org/2011/11/time-out-australian-association-for.html
  • Barone, L. (2007). Emozioni e sviluppo. Percorsi tipici e atipici. Roma: Carocci Goldschmied, E. & Jackson, S. 1994). Persone da 0 a 3 anni. Crescere e lavorare nell’ambiente del nido. Ed. Junior, Bergamo.
  • Hurrell, K.E. et al. (2015). Parental reactions to children’s negative emotions: relationships with emotion regulation in children with an anxiety disorder. Journal of Anxiety Disorders, 29:72-82.
  • Noziglia, M. (2003). Sviluppo, apprendimento, elaborazione delle emozioni. I problemi e i disturbi dei bambini di oggi: una ricerca in alcuni nidi e scuole materne milanesi, Ed. Junior.
  • Rogers, C. (1980). Un modo di essere. Giunti Editore.
  • Schore, A. (2000). Attachment and the regulation of the right brain. Attachment and Human Development, 2 (1), 23-47.
  • Sroufe, L. (1996). Lo sviluppo delle emozioni. I primi anni di vita. Milano: Raffaello Cortina, 2000.
  • Stern, D. (1984). Affect attunement. In J. Call, E. Galenson, & R. Tyson (Eds.), Frontiers in infant psychiatry, 2, (pp. 3-14). New York: Basic Books.
  • Stelter, R.L. & Halberstadt, A.G. (2011). The Interplay Between Parental Beliefs about Children’s Emotions and Parental Stress Impacts Children’s Attachment Security. Infant Child Development, 20(3):272-287.

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